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10 testi per approcciarsi agli studi postcoloniali e all'opzione decoloniale.

a cura di Cristian Perra

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5 Minuti

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Con questa nuova rubrica mensile intendiamo mensilmente creare una costellazione di testi che possa servire a introdurre le nostre lettrici e i nostri lettori ad un determinato argomento. Si tratta di veri e propri consigli di lettura, a mano a mano forniti dal collettivo di Filosofia de Logu.

Per questo primo numero introduttivo abbiamo pensato a dieci testi, tutti in commercio, che possono essere utili per approcciarsi all’ambito degli studi postcoloniali e dell’opzione decoloniale.

Per ogni testo sarà fornita la quarta di copertina. 

Consigliamo, in caso di acquisto, di rivolgersi alle vostre librerie indipendenti di fiducia.

1. Orientalismo di Edward Said

“Orientalismo è un ripensamento di quello che per secoli è stato ritenuto un abisso invalicabile tra Oriente e Occidente. Il mio scopo non era tanto eliminare le differenze – chi mai può negare il carattere costitutivo delle differenze nazionali e culturali nei rapporti tra esseri umani? –, quanto sfidare l’idea che le differenze comportino necessariamente ostilità, un assieme congelato e reificato di essenze in opposizione, e l’intera conoscenza polemica costruita su questa base. Ciò che auspicavo era un nuovo modo di leggere le separazioni e i conflitti che avevano provocato ostilità, guerre e l’affermarsi del controllo imperialista. Anche se le diseguaglianze e i conflitti da cui è nato il mio interesse per l’orientalismo come fenomeno culturale e politico non sono scomparsi, oggi si è perlomeno raggiunto il consenso sull’idea che tutto ciò non rappresenta una situazione immutabile, bensì un’esperienza storica la cui fine (o perlomeno il cui parziale superamento) può essere a portata di mano.”  Dalla Postfazione

Edward Said, Orientalismo, trad. it. di Stefano Galli, Feltrinelli, Milano, 2013.

2. provincializzare l'europa di dipesh chakrabarty

Il pensiero europeo è allo stesso tempo indispensabile e inadeguato per riflettere sulle esperienze di modernità politica nelle nazioni non occidentali. Indispensabile perché le idee universali proposte dall’Illuminismo europeo rimangono la fondamentale base di ogni critica sociale che cerchi di affrontare i problemi della giustizia e dell’equità. Inadeguato perché la transizione capitalista nel Terzo mondo, se misurata con gli standard occidentali e con la nostra idea di storicizzazione, appare spesso incompleta o inefficace. Già dalla metà del XX secolo la cosiddetta “epoca europea” della storia moderna ha cominciato a lasciare spazio ad altre configurazioni regionali e globali. Provincializzare l’Europa non significa però ripudiare o abbandonare il pensiero europeo, ma riflettere su come globalizzarlo rinnovandolo per e dai suoi margini.


Ogni caso di transizione al capitalismo non è più semplicemente interpretabile come un fenomeno sociologico di transizione storica, ma anche come un caso di traduzione: una traduzione di mondi esistenti e delle loro categorie di pensiero nelle categorie e nella cultura della modernità capitalista. Chakrabarty dimostra, sia in modo teorico che attraverso esempi dell’India coloniale e contemporanea, come tali storie di traduzione potrebbero essere pensate o scritte.


Imbastendo una sorta di conversazione tra due dei più importanti rappresentanti del pensiero europeo, Marx e Heidegger – l’uno esempio della tradizione analitica delle scienze sociali, l’altro di quella ermeneutica –, l’autore cerca di comprendere la modernità politica dell’Asia meridionale, prendendo in esame nella prima parte studi storici ed etnografici su gruppi “subalterni” e concentrandosi nella seconda sulla storia dei bengalesi indù delle caste superiori colte.

Provincializzare l’Europa comincia e finisce indicando la necessità del pensiero politico europeo per la descrizione della modernità politica non europea e, al tempo stesso, affronta i problemi di rappresentazione che tale necessità produce.

Dipesh Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, trad. it. di Matteo Bortolini, Meltemi, Milano, 2004.

3. Critica della ragione postcoloniale di gayatri c. spivak

Nel 1926, una giovanissima attivista del movimento per l’indipendenza indiana, Bhuba-neswari Bhaduri, si suicidò a Calcutta senza apparente spiegazione. Le era stato affidato un assassinio politico che non era riuscita a eseguire e così si uccise lei, ma per farlo aspettò i giorni delle sue mestruazioni, per evitare che il suo atto venisse interpretato come un suicidio di stampo “tradizionale” per una gravidanza illecita. Un secolo prima, intorno al 1820, tra le colline di Sirmur, nel basso Himalaya, visse una Rani, una regina, sposata a un Rajah spodestato dagli inglesi, la quale intendeva compiere il rituale sati, il suicidio delle vedove, nonostante il marito fosse ancora in vita. I britannici, come emissari dell’Europa “civilizzatrice”, si sentirono in dovere di convincerla a non compiere questo gesto “barbaro”. La Rani di Sirmur non divenne mai una sati.


Sono due immagini di donne che Gayatri Chakravorty Spivak ci mostra in questo libro: le loro storie, irrappresentabili e insolubili, potrebbero farci pensare a fatti molto vicini ai nostri giorni, a terroriste che si fanno esplodere, a chador negati o reclamati, alla “missione civilizzatrice” dell’Occidente. E ancora: alle forme dello sfruttamento sparse nel globo, al senso di una parola come “civiltà”, di un tempo come il “presente”. In dissolvenza… Nei quattro capitoli che compongono il volume, autorevolmente intitolati “Filosofia”, “Letteratura”, “Storia”, “Cultura”, si compie il passaggio dagli studi del discorso coloniale agli studi culturali transnazionali e si focalizza la figura dell’“Informante nativo”. Il “postcoloniale” è l’ambito teorico e d’azione che ripensa i dispositivi del sapere e le cartografie del potere muovendosi in un andirivieni storico e narrativo, ricercando nel passato e nel presente, nei testi della cultura e nei segni dell’immaginario, i fondamenti di quella che Spivak definisce “violenza epistemica” del colonialismo e dell’imperialismo. La critica della ragione postcoloniale mette però tra parentesi la stessa etichetta “postcoloniale”, ne rovescia come un guanto le stesse possibili e pericolose incrostazioni come stereotipo, ne rifiuta le benevolenze consolatorie che oggi riempiono le accademie e i progetti umanitari globali del capitalismo multinazionale. Spivak si schiera così dalla parte dell’odierno attivismo antiglobalista, delle battaglie per la giustizia ecologica, ambientale e riproduttiva, che dal Terzo e dal Quarto mondo chiamano in causa le metropoli.


Il volume contiene, tradotto per la prima volta in italiano e qui rivisto e discusso, il celebre saggio I subalterni possono parlare?.

Gayatri C. Spivak, Critica della ragione postcoloniale, trad. it. di Angela d’Ottavio, Meltemi, Milano, 2004.

4. i luoghi della cultura di homi bhabha

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5. america latina e modernità a cura di gennaro ascione

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6. decolonialità e privilegio di rachele borghi

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7. i dannati della terra di frantz fanon

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8. quaderni del carcere di antonio gramsci

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9. elogio del margine di bell hooks

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10. un femminismo decoloniale di francoise verges

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